Verrà un tempo in cui le culture non avranno bisogno di eserciti per difendere la propria unicità e in cui le maggioranze non cercheranno più di fagocitare le minoranze. Io resto fedele allo yiddish perché esprime la mia speranza di redenzione. Quando tutte le nazioni capiranno di essere in esilio, l’esilio cesserà di esistere. […] Un popolo deve essere contemporaneamente sé stesso e parte integrante di un tutto, fedele alla propria patria e alle proprie origini e consapevole fino in fondo delle origini altrui. Deve possedere la saggezza del dubbio ma anche il fuoco della fede. In un mondo in cui siamo tutti essenzialmente stranieri, il comandamento «Ama lo straniero» non è solo un desiderio di altruismo, ma il vero nucleo della nostra esistenza.
A che cosa serve la letteratura? È questa domanda spinosa che Adelphi rilancia fin dal titolo dell’edizione italiana di Old Truths and New Clichés (2022) – raccolta dei saggi di Isaac Bashevis Singer, inediti o pubblicati solo su rivista – a fungere da filo conduttore attraverso le eterogenee riflessioni dell’autore, per la prima volta pubblicate in Italia.
Realizzazione postuma di un progetto a lungo immaginato da Singer, il volume, lungi dal seguire un impianto teorico coerente, è piuttosto un insieme di vivaci riflessioni sulla scrittura e il mestiere dello scrittore, sulla lingua yiddish, sulla fede e sulla condizione dell’uomo moderno.
Nato in Polonia nel 1903 e trasferitosi negli Stati Uniti nel 1935, Singer fu uno dei più importanti scrittori ebrei di lingua yiddish, premio Nobel per la Letteratura nel 1978. Figlio di un rabbino chassidico, Singer intreccia con la consueta ironia aneddoti autobiografici, scienza, riflessioni teologiche e osservazioni sulla vita letteraria americana. Tracciando la propria “genealogia artistica”, l’autore de La famiglia Moskat (1950) mette sullo stesso piano lo studio dei testi religiosi – dal Talmud alla Qabbalah, senza dimenticare i giovanili scontri con le posizioni più rigidamente ortodosse del padre – e la sua vera e propria “formazione letteraria”, avvenuta sui classici di Zola e Balzac. In Perché scrivo come scrivo il suo percorso letterario si intreccia così con quello personale, biografico: il rapporto con la sorella Ester e il fratello Joshua, entrambi scrittori, la tensione tra un comune retroterra affettivo e culturale, e la spinta verso una modernità che lo fa sentire “fantasma”.
Da questo intreccio di diverse componenti prende forma la sua Weltanschauung personale che trova le sue radici tanto nei Dieci Comandamenti dell’Antico Testamento quanto nella filosofia di Hume e Schopenhauer; una personale visione del mondo, tutt’altro che definitiva, che Singer illustra nel suo divenire diacronico, nel suo essere in realtà plurale, perché costruita tanto a partire dai testi quanto dalla vita stessa. Ecco che allora le dottrine della Qabbalah non rappresentano storicamente soltanto “la via ebraica” per ripensare l’erotismo – e soprattutto il femminile – ma anche, dal suo punto di vista di “giovane peccatore”, la giustificazione filosofica del suo amore adolescenziale per Shosha e della sua fascinazione di bambino per i maghi e il circo.
Nella sua riflessione, che pone l’individualità a fondamento della letteratura, è centrale l’attenzione per la lingua e per la misura del linguaggio: atteggiamento che presuppone, forse, un certo scetticismo nei confronti della rivoluzione linguistica del Sessantotto. Quest’ultima avrebbe per certi aspetti depotenziato la forza di determinate espressioni, in particolare delle più volgari. Ciò porta Singer a privilegiare una scrittura, spesso parabolica, estremamente controllata nella forma (nel rifiuto sistematico del «caos») e attenta alla qualità della trama. Se, in un certo senso, il “culto del limite” – nella forma, ma anche nel contenuto – può rappresentare una posizione conservatrice, per Singer è invece un baluardo contro la banalità e il cliché. Lo yiddish coincide allora con la lingua dell’essenzialità: privo di parole sconce, rappresenta per Singer la vera lingua dell’ebraicità, la lingua parlata da generazioni di morti, capace di esprimere «l’eterno spirito ebraico». Lo yiddish avrebbe lessicalizzato l’esilio come condizione esistenziale, fondamento insieme dell’ironia e della forza creativa di un intero popolo.
Per concludere, non manca nella raccolta l’ironia tagliente con cui Singer guarda al mondo della critica letteraria. Accettando, in quanto scrittore, anche la professione dell’«intrattenitore», nel saggio I Dieci comandamenti e la critica moderna egli immagina di sottoporre i Dieci Comandamenti di Mosè a diversi critici, non sul monte Sinai, tra tuoni e lampi, ma come un semplice opuscolo. Le recensioni offerte dagli specialisti rivelano tutte le idiosincrasie e i limiti di diversi approcci che tendono a ripiegare nello scolastico, finanche nel tic stilistico: a parlare è prima l’Esteta, poi un comunista, poi uno psicologo e, infine, anche il critico di una rivista ebraica. I diversi contributi si traducono nel medesimo tipo di analisi fredda che, per Singer, depotenzia la narrazione nel caso di un racconto o annulla il valore intrinseco del testo. Che sia per il complottismo giornalistico di alcune riviste ebraiche (con le quali Singer peraltro collaborò, spesso sotto pseudonimo), o per la fede cieca in un approccio critico, se su un testo si può scrivere di tutto, allora è proprio il suo valore misterioso e intangibile, «mistico» forse, che l’autore invita a salvaguardare.
Recensione di Leonardo Guizzetti
Isaac Bashevis Singer, A che cosa serve la letteratura?, traduzione dall’inglese di Marina Morpurgo, 2025, Adelphi, pp. 210, ISBN: 978-8845939693
