“Si era reso conto […] che essere cinefilo, per lui, significa ritrovarsi, e che al lavoro o sulla metro o in quelle tremende sessione nel pub non era neanche lontanamente sé stesso, non era nessuno, anzi, nulla, e soltanto al cinema diventava una persona”.
Brian conduce un’esistenza solitaria e rigidamente organizzata, nella speranza di ridurre al minimo l’influenza del caso e sottrarsi, in questo modo, ad ogni difficoltà imprevista. L’unico piacere che si concede è frequentare un club di cinefili, ma fino a che punto il cinema – e quindi l’arte – possono salvare dall’isolamento e dall’apatia?
È questa la domanda che attraversa Brian, primo libro di Jeremy Cooper ad arrivare in Italia, edito da Atlantide nella traduzione di Ilaria Oddenino. L’autore inglese ha già pubblicato diverse opere, sia di narrativa sia di saggistica d’arte, e ha vinto il Fitzcarraldo Editions Novel Prize nel 2018, con il romanzo Ash before Oak (2019). È prevista invece per il 2026 l’uscita di un nuovo romanzo, Discord, dedicato alla musica classica.
Per non crollare sotto il peso di un’infanzia burrascosa e infelice, Brian si rifugia in una monotona routine: il lavoro presso l’ufficio per l’edilizia abitativa – dove si guarda bene dal familiarizzare con i colleghi –, il pranzo sempre nello stesso bar, le sere passate davanti alla televisione e a una tazza di tè con i biscotti. Nient’altro trova spazio nella sua vita fino al giorno in cui decide di iscriversi al British Film Institute: inizia assistendo a un paio di proiezioni al mese, e in poche settimane il cinema diventa un impegno quotidiano, offrendogli, per la prima volta, la possibilità di sentirsi parte di qualcosa. La trama, molto semplice, procede attraverso il susseguirsi di impressioni e riflessioni scaturite dalla visione dei film o dalle discussioni con gli altri assidui frequentatori del BFI: le numerosissime citazioni cinematografiche non sono un vezzo, ma la struttura portante del romanzo e la via di accesso del lettore nella vita del protagonista. Del resto, è per lui impossibile contemplare una vita senza film: «sarebbe morto, ne era certo, se non avesse più potuto vederne».
La regolare e costante visione di film modella nel tempo la percezione che Brian ha della realtà. Rispetto ad un’esistenza confinata dentro stretti limiti – come «un topo, una termite, asserragliato dentro tunnel bui di sua stessa creazione» –, il cinema è un’apertura tanto sull’esterno, che gli permette di maturare consapevolezza delle questioni sociali e dei grandi drammi della storia, quanto sul suo stesso mondo interiore, offrendogli la possibilità di fare esperienza di «sensazioni dentro di sé che non sapeva esistessero». Il cinema penetra così in profondità nel suo immaginario che diventa la lente attraverso cui comprendere la sua stessa esistenza: se inizialmente è il narratore a sfruttare le proiezioni a cui Brian assiste per raccontarne la vita, da un certo momento in poi è il protagonista che interpreta ciò che gli succede tramite continue analogie con i film che ha visto, citando battute o riprendendo le parole dei registi.
Eppure il cinema, mentre permette un’esperienza conoscitiva, realizza anche la possibilità di fuggire da sé stessi: il rapimento nell’immaginario di un altro offre una momentanea – ma agognata – sostituzione del suo «io inadeguato». Tra Brian e le pellicole rimane sempre una «distanza di sicurezza estetica», che fa sì che il coinvolgimento del protagonista nelle storie dei film rimanga parziale, controllato, incapace di sconvolgere veramente la quiete artificiosa del suo animo – come una vita vissuta da distante, al sicuro dalla possibilità del dolore. Il cinema diventa un surrogato dell’esistenza, una finestra da cui guardare fuori stando al riparo dalle intemperie. E infatti, pur plasmandone il punto di vista sul mondo e offrendogli le parole per interpretarlo, nulla, o quasi, si sposta, nella ferrea routine di Brian, che si trascina identica per più di vent’anni.
La compostezza del protagonista – ottenuta respingendo ed evitando ogni esperienza emotiva nel tentativo di tenere insieme una vita profondamente segnata dalla sofferenza – si riflette nella scrittura. La prosa di Cooper è chiara, precisa e misurata: tutto è raccontato con esattezza e semplicità, e il dolore viene sì rilevato, ma mai indagato oltre la superficie. L’ansia e la disperazione sono dichiarate con il distacco di un referto medico, senza alcun tentativo di coinvolgimento emotivo: come la sofferenza è repressa nella vita di Brian, così sulla pagina può emergere solo come constatazione.
Recensione di Letizia Grosselle
Jeremy Cooper, Brian, traduzione dall’inglese di Ilaria Oddenino, 2025, Atlantide, pp. 192, ISBN: 9791256420162
