“Dov’era finita l’allegria, la serenità degli inizi? L’amore accudente di quelle mura? Restammo per un po’ a scrutarci, e io avevo solo due occhi e la mia casa mille, di più, centomila. Ci addormentammo come due nemici.”

Aldo Lanari, scrittore protagonista dell’ultimo romanzo di Giorgio Ghiotti, Casa che eri (Hacca, 2024; candidato alla LXXIX edizione del Premio Strega), ha quarant’anni, vive a Roma, e non sta affatto bene in casa sua: questo non tanto per la casa in sé, giacché tutte le case presenti nel romanzo, eccettuata qualche felice occasione, stillano morte o immobilità, occasioni solo potenziali; quanto piuttosto per via dell’assenza che la riempie: assenza di Luisa, donna alla quale Aldo è legato da un’amicizia morbosa e immatura – tale è anche il loro tentativo di arginare la vita adulta, mettendola tra parentesi –, che abbandona la casa condivisa quando conosce Alessio Patriarca, uomo normalissimo, e se ne innamora.

Il romanzo è narrato in prima persona da Aldo, che richiama alla mente, in ordine sparso, varî tempi della sua età posticciamente adulta, tra amori falliti, piccole gioie e grandi tragedie. Nella bufera narrativa la casa, a dire il vero, non ha l’importanza (né la carica semantica) che avrebbe potuto avere, se non di riflesso. Differente è il trattamento riservato ai personaggi “secondarî” (Vittorio, Michel, Alessio…), i quali riescono, con poche pennellate, ad essere dei compiuti e affascinanti ritratti.

Giorgio Ghiotti, nato a Roma nel 1994, è già un autore maturo e con una propria voce, progressivamente affinata attraverso la lunga e prolifica frequentazione della scrittura sia narrativa sia poetica (esordisce nelle due categorie rispettivamente nel 2013, con Dio giocava a pallone per i tipi di nottetempo, e nel 2015, con Estinzione dell’uomo bambino per l’editore Giulio Perrone): tal doppia anima si può riscontrare soprattutto sul piano stilistico – il dettato è denso, e ogni parola possiede un sovrappiù di significato che non esiterei a definire lirico. La necessità di precisione e al contempo levità, indispensabili ai fini dell’equilibrio del romanzo (e specie di un simile romanzo “poetico”), è accolta dall’autore, che riesce a tenere egregiamente le fila del discorso, sfruttando le eccedenze semantiche per far reagire a distanza le diverse parti dell’intreccio.

Si tratta però pur sempre di uno stile ardito, e il fatto che esso sortisca complessivamente l’effetto desiderato non lo esime da alcune problematiche – una su tutte, quella dei dialoghi, nei quali i punti di forza del monologo narrante a volte si rovesciano in negativo: il modo in cui i personaggi parlano fra loro è spesso innaturale e impostato, affettatamente letterario anche quando collocato all’interno delle logiche di un libro che strizzi esplicitamente l’occhio al pieno Novecento. Così ad esempio per il racconto della prima visione di Alessio per bocca – e occhi – di Luisa, che è la riformulazione in discorso diretto di un lungo monologo interiore, dall’esito discutibile.

Felicissima è al contrario la figura della gabbia, la quale, più che ad una semplice metafora della dimora, corrisponde ad una sorta di correlativo oggettivo degli stati d’animo dei personaggi e dei loro modi di pensare ed interpretare il mondo. Michel, artistico coinquilino di un amore giovanile di Aldo, si dedica infatti all’intreccio di elaborate gabbie per uccelli con il fil di ferro, ma ne è insoddisfatto, in quanto le reputa cose morte e inerti, inabitate – Aldo ne diviene per caso il primo acquirente, e appende la gabbia nel giardino della casa, acquistata su consiglio proprio di Luisa:

Io pensavo che aveva ragione Michel, che quella gabbia era una cosa morta. All’aperto, esposta alle piogge, si arrugginì e la ruggine la rese più bella, più viva, e io osservandola non vedevo più il simbolo di un risarcimento per una promessa mancata, ma l’allegria di quei giorni strani e lontanissimi […].

Più avanti nel testo, a comprare delle gabbie è una professoressa di greco che, a testimonianza di un più sereno e speranzoso animo di quello dei protagonisti, «le ha fatte portare a Tivoli, ha comprato due colonne e ce le ha messe sopra, vuote. Dice che non è vero che sono gabbie vuote; c’è il cielo dentro, ci sono le nuvole».

Recensione di Gian Marco Evangelisti

Giorgio Ghiotti, Casa che eri, 2024, Hacca, pp. 160, ISBN: 9788898983926