Chi è Jan Baetens?
Jan Baetens è uno scrittore e studioso belga. Nel suo percorso accademico e autoriale ha esplorato diversi generi letterari, focalizzandosi in particolare sul rapporto tra testo e immagine. Spazia, con grande consapevolezza teorica, tra letteratura e cultura visuale, tra saggistica e fiction.
Il carattere ibrido della sua scrittura è dimostrato già nella sua produzione poetica: dagli esperimenti stilistici e formali (Pour une poésie du dimanche, 2009), passando per le raccolte che traggono ispirazione dal linguaggio del cinema (Vivre sa vie, 2005), delle arti figurative (La lecture, 2017) e del fumetto (Cent ans et plus de bande dessinée, 2007), sperimenta infine con i fototesti che comprendono illustrazioni (Autres nuages, 2012) e fotografie (Changer de sens, 2023; Mon jardin des plantes, 2024).
Con Faire sécession (2017) affronta anche il genere romanzesco, realizzando un iconotesto che indaga il rapporto tra realtà e finzione, l’intreccio tra storia, memoria e narrazione, senza ignorare, nel rapporto tra frammenti di scrittura e immagini, lo scarto che si crea tra i due codici. Definizione altrettanto complessa è quella di Une fille comme toi (2020), un “ciné-roman-photo” assemblato dallo stesso Baetens.
In parallelo alla sua attività di insegnamento presso l’Università KU Leuven, ha scritto e curato raccolte fondamentali per la definizione e lo sviluppo dei Visual Studies, portando avanti diverse riflessioni teoriche nell’ambito della cultura visuale: si è occupato di fumetto e graphic novel (Hergé écrivain, 1989; The Graphic Novel: An Introduction, 2015), del roman-photo (Pour le roman-photo, 2010), di adattamenti e passaggi tra codici narrativi e visuali (La novellisation: Du film au livre au roman, 2008; Adaptation et bande dessinée: Éloge de la fidélité, 2020) e, soprattutto, di cinefotoromanzi (The Film Photonovel: A Cultural History of Forgotten Adaptations, 2019).
Oltre a fondare e contribuire alle riviste «Formules. Revue des créations formelles» e «Formes Poétiques Contemporaines», Baetens ha approfondito lo studio dell’Oulipo e della scrittura vincolata (Romans à contraintes, 2005), dell’ermeneutica letteraria (Comme un rat, 2020) e della poesia contemporanea (Pour en finir avec la poésie dite minimaliste, 2014; À voix haute, poésie et lecture publique, 2016).
Quest’anno ha curato, presso l’Università di Padova, una mostra dal titolo Film Photonovel: Storia di adattamenti dimenticati, che attinge alla sua collezione privata di cinefotoromanzi per descrivere una breve storia del genere e mostrare la varietà di alcuni degli esemplari esposti. La sua ultima raccolta poetica, Hiver à Rome (2025), è di prossima pubblicazione per Aragno (in edizione bilingue), con i contributi di Andrea Cortellessa e Michel Delville.
Intervista a Jan Baetens
Qual è il suo fumettista belga preferito e quale il suo cinefotoromanzo? Non necessariamente il più importante, magari solo il più divertente, o quello che le sta più a cuore.
Per quanto riguarda i fumetti, la risposta è piuttosto semplice: dev’essere Hergé. Voglio dire, Hergé avrebbe davvero meritato il Premio Nobel, era un vero genio. Questo non significa che tutti i suoi libri siano interessanti, ma alcuni lo sono senz’altro. Per esempio, mi piace molto Le Secret de la Licorne (1943), che è la prima metà di un dittico. È stato “adattato” da Steven Spielberg in un film nel 2011, ma meglio non parlarne: sono ancora traumatizzato da quella trasposizione. Hergé è un autore che rileggo regolarmente, e ogni volta continuo a scoprire cose nuove. È anche un ottimo esempio di scrittura vincolata. Oggi, quando si compra l’albo, lo si trova stampato a colori e in bella edizione, ma in origine venne pubblicato durante la guerra su un quotidiano: ogni giorno usciva una striscia piccola, e per di più, a causa della penuria di carta, la qualità del supporto era pessima e lo spazio disponibile si riduceva continuamente. Hergé doveva quindi garantire una leggibilità immediata dei suoi disegni. Di qui la forma estremamente stilizzata, una riduzione che più tardi è stata definita ligne claire. Il termine compare solo negli anni Ottanta, ma la tecnica era stata già messa a punto molto prima, proprio grazie a quei tremendi vincoli materiali. Alla fine, le immagini erano a malapena più grandi di un francobollo. Immaginate di dover raccontare una storia in quel modo! Bisogna sapere con estrema precisione che cosa vuole dire, come lo si vuole dire, e così via.
La questione del cinefotoromanzo è diversa. Per esempio, mi piace molto l’adattamento del film di Orson Welles, L’infernale Quinlan, pubblicato col titolo La Soif du mal sulla rivista «Amor Film» (n. 163, 1° novembre 1958). Ma è un caso talmente marginale rispetto all’intera produzione che sarebbe ingiusto dire semplicemente che quello in particolare è il mio preferito. Nel caso dei cinefotoromanzi, preferirei proporre una selezione di adattamenti molto classici, forse un po’ meccanici, ma che possono essere davvero rappresentativi e ben fatti. E poi anche alcuni più bizzarri. Lo stesso vale per il fotoromanzo in generale. Spesso mi chiedono che tipo di fotoromanzo consiglio, ma non riesco a indicarne uno perché sono tutti più o meno simili. Con i fumetti è diverso, e questo dipende dal fatto che in questo genere è esplicitato l’autore. Nel mondo dei fotoromanzi e delle riviste di fotoromanzi, anche quando compare il nome di un autore, questo si limita solitamente a seguire le regole editoriali della rivista. Con i cinefotoromanzi e i fotoromanzi in generale, lo spettro è talmente ampio che non è possibile leggere tutto. Si può però sempre fare una selezione. Uno dei miei potenziali progetti – qualcosa che mi piacerebbe scrivere – è proprio un libro sul cinefotoromanzo. Ne ho già pubblicato uno (The Film Photonovel. A Cultural History of Forgotten Adaptations, 2019), ma adesso vorrei scriverne uno diverso: una storia fatta di circa venti close readings di altrettante pagine di diversi cinefotoromanzi. Dal punto di vista dei diritti d’autore, però, potrebbe essere complicato: dovrò discuterne con un editore. In ogni caso, per tornare alla domanda iniziale, posso dire con sicurezza che, per quanto riguarda i fumetti, il mio autore preferito è Hergé.
Quando legge una graphic novel, un fumetto o un cinefotoromanzo, ci sono elementi che la colpiscono subito in qualità lettore, e altri che invece attivano il suo sguardo analitico di studioso? Che cosa cerca quando assume ciascuno di questi ruoli?
Prima di tutto, sono anch’io un semplice lettore. Leggo per divertimento, e il divertimento fa parte della vita quotidiana. Non analizzerò mai qualcosa che non mi interessa o che non mi piace. Ci sono fumetti che rileggo continuamente solo per piacere personale. Adoro, per esempio, Terry and the Pirates: è una striscia d’avventura creata negli anni Trenta da Milton Caniff. È un po’ come Le avventure di Tintin, ma con un personaggio più simile a Haddock. In Tintin, naturalmente, c’è Tintin, ma il vero protagonista è in realtà Haddock. Quest’ultimo è un adulto, il cui comportamento è talvolta deplorevole, ma c’è una grande differenza rispetto alla striscia di Caniff: in Tintin non c’è nessun interesse romantico. Come in Tintin, anche in Terry and the Pirates il personaggio di Terry è un ragazzo che viaggia per il mondo insieme a un uomo più anziano, già maturo – e piuttosto sessista. Quest’ultimo è costantemente “inseguito” dalle donne, fugge da loro, e così via. È una differenza notevole rispetto ad altre strisce d’avventura. È simile a Flash Gordon, ma inserito in un contesto di avventura coloniale, invece che di fantascienza. Inoltre è un fumetto realizzato molto bene: splendidamente disegnato e spesso molto divertente. Io lo rileggo per puro piacere.
Quando ancora tenevo corsi su graphic novels e fumetti, chiedevo agli studenti di fare questo esercizio: prendere la prima pagina, capovolgerla, e dimenticare la storia. Così facendo risultano subito evidenti alcuni schemi formali. Dopodiché si può tornare al normale processo di lettura e osservare come questi schemi formali interagiscono con la storia e con il testo. Questo è il punto di partenza. Insisto sempre molto sulla relazione tra la storia e gli elementi che si trovano nel resto della rivista. Questa relazione può essere molto profonda. Spesso, per esempio, la storia continua al di fuori dei propri margini, e ciò che sta fuori si integra nella storia. Quando si tratta di letteratura, e soprattutto di fumetti, sono estremamente sensibile alle scelte tipografiche, all’impaginazione e ad altri elementi di questo tipo. Non si tratta solo del modo in cui vengono organizzate le singole pagine, ma anche di come questi meccanismi di impaginazione cambiano – o non cambiano – nel tempo. Anche le differenze meccaniche più semplici possono rivelarsi molto funzionali, soprattutto quando si ripetono sempre le stesse strisce e la stessa struttura delle vignette nel corso di tutto il processo. In Belgio lo chiamano il “metodo della piastra per waffle”, e lo si applica anche ai fumetti. Può essere estremamente efficace, ad esempio, ripetere immagini ma sempre con inquadrature o tagli diversi: il risultato può essere davvero meraviglioso.
Lei ha esplorato in più occasioni il concetto di novellizzazione – non solo come passaggio da una forma narrativa a un’altra, ma anche come processo di riscrittura e di rimediazione. In che modo questi adattamenti influenzano la percezione dell’opera originale?
È un punto importante e fondamentale perché in questo contesto la nozione di “originale” in realtà non ha più senso. Per esempio, si può leggere una novellizzazione prima di vedere il film, oppure il contrario. Si può persino ignorare del tutto il film e leggere soltanto la novellizzazione. E la cosa più divertente è che, in certi casi, c’è una vera e propria confusione tra la novellizzazione – che in linea di principio viene dopo il film – e quello che potremmo chiamare sceneggiatura, che a sua volta può essere scritta o trasposta sotto forma di romanzo.
Un esempio famoso è King Kong. Il film del 1933 di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack è stato novellizzato. Uno degli sceneggiatori – insieme a James A. Creelman e Ruth Rose – era Edgar Wallace, un autore che negli anni Trenta veniva considerato il concorrente maschile di Agatha Christie. Mentre Christie era vista come una scrittrice di romanzi gialli “per donne”, Wallace scriveva storie simili per un pubblico maschile. Oggi l’opera di quest’ultimo risulta difficile da leggere, perché appare molto “datata”. Wallace era in costante difficoltà economica – perdeva molto denaro scommettendo sui cavalli – e beveva parecchio; si ritrovò quindi costretto a guadagnarsi da vivere lavorando per l’industria hollywoodiana. Contribuì alla sceneggiatura di King Kong e, nello stesso tempo, scrisse anche una novellizzazione del film – davvero notevole, probabilmente migliore del film stesso. Curiosamente, molte persone pensano che la novellizzazione sia il romanzo da cui il film è tratto (a causa di problemi dell’ultim’ora in postproduzione, l’uscita del film fu rimandata e quindi la novellizzazione apparve prima del film stesso). E certi editori addirittura “falsificano” questo fatto, pubblicando la novellizzazione e presentandola come “il libro da cui è tratto il film”. Quando un film è basato su un libro, questo è considerato l’elemento che gli conferisce prestigio culturale.
Ed è così che la nozione di “origine” diventa problematica. L’esistenza delle novellizzazioni e di altri tipi di adattamento complica il dibattito teorico sulle nozioni di “origine” e di “originale”. Io stesso ho letto molte novellizzazioni e ne ho collezionate parecchie. Naturalmente non si tratta di un materiale che si trova in una biblioteca universitaria – non è considerato sufficientemente serio. Non lo si trova neppure nella maggior parte delle biblioteche pubbliche, perché in esse, generalmente dopo cinque anni, questo tipo di opere viene eliminato. È il motivo per cui una biblioteca pubblica non può funzionare come archivio per questo tipo di patrimonio. Così, tutti questi libri scompaiono, a meno che non li si raccolga personalmente. Io ho finito per donare la mia collezione alla Biblioteca Nazionale del Belgio.
La nozione di “origine” è assolutamente affascinante. Esiste sempre qualcosa che viene prima – o che almeno sembra venire prima. Certo, quello di scrivere e creare è un processo che sviluppa in modo sequenziale, ma ciò che troviamo all’inizio è spesso già una ripetizione o una trasformazione di qualcos’altro. Credo però che molte novellizzazioni abbiano un proprio valore, perché rendono il film più esplicito – e, in alcuni casi, persino più interessante.
Sia fumetti che cinefotoromanzi sono nati come forme di letteratura popolare prima di diventare oggetto di indagine critica. Come è arrivato personalmente a occuparsi di questi due generi? Quali somiglianze e differenze vede nei modi in cui vengono letti? E come si sono influenzati a vicenda nel tempo?
La prima risposta – sbagliata – a questa serie di domande sarebbe che i due generi sono completamente separati. In realtà non è così. All’apice del loro successo, negli anni Cinquanta e Sessanta – che è stato anche il momento di massima popolarità dei cinefotoromanzi – i fumetti erano considerati letture per bambini, mentre i fotoromanzi erano destinati alle donne. In linea di principio, quindi, sono completamente diversi. In pratica, però, parecchie persone – me compreso – leggevano entrambi. Io leggo fumetti e fotoromanzi da quando avevo circa sei anni, e continuo a farlo ancora oggi.
In realtà, il fotoromanzo, come genere o come medium, è un adattamento di un tipo di fumetto: la cosiddetta drawn novel («Does Every Picture Really Tell a Story? Film Photonovel Magazines and the Question of Visual Sequentiality», 2023), di cui un esempio è rappresentato dalle storie melodrammatiche pubblicate in Grand Hôtel, una rivista italiana lanciata nel 1946. All’epoca tutti leggevano Grand Hôtel. Dall’oggi al domani, nel 1946, la rivista inaugurò un nuovo genere – la drawn novel – che combinava cinema e, per così dire, tutto il resto. Tutte le storie erano adattamenti di film e i personaggi avevano l’aspetto di star del cinema. Questa nuova forma riuniva cinema, melodramma romantico ottocentesco e fumetto: tutti questi generi venivano fusi insieme nella drawn novel. Anime incatenate (1946), per esempio, è un caso interessante di rapporto fittizio tra film, romanzo e drawn novel. Il successo di Grand Hôtel si dovette proprio a questo tipo di storie, create da specialisti di letteratura illustrata in Italia. Si trattava di persone che avevano lavorato per la stampa approvata dal regime fascista, e tra loro c’era Walter Molino, l’artista che realizzò la maggior parte di questi romanzi in Italia e che divenne famoso per avere illustrato tutte le copertine de La Domenica del Corriere. Il Corriere della Sera aveva infatti un supplemento settimanale con immagini a colori spettacolari. Dopo la guerra, Molino cominciò a lavorare per Grand Hôtel. La drawn novel ebbe un tale successo ed era di qualità così alta che non c’erano abbastanza disegnatori in grado di realizzarla, finché a qualcuno non venne l’idea di sostituire i disegni con le fotografie. Così nacque il fotoromanzo.
Si vede quindi che esiste – anche se dimenticata – una relazione tra i due generi, fumetto e cinefotoromanzo. In quegli anni, quando un artista lavorava a un fumetto, l’impaginazione era stabilita prima ancora dei disegni. Il disegnatore riceveva infatti una pagina già strutturata. Lo stesso processo veniva applicato alla creazione dei cinefotoromanzi. I primi in realtà non sembravano nemmeno fotoromanzi: davano l’impressione che fosse tutto disegnato, perché le foto degli attori venivano semplicemente scattate davanti a una parete bianca e gli sfondi aggiunti successivamente. Dato che costruire scenografie vere era troppo costoso – e, nella cultura popolare, tutto ruota intorno al denaro – questo processo risultava molto più economico. È studiando la storia di questi generi che si scoprono altre connessioni.
Oggi – o meglio, in tempi recenti – una delle nuove forme di fumetto si basa proprio sulla combinazione di fotografie e disegni. Non è neppure una novità, perché già nei fumetti degli anni Trenta, quando non c’era abbastanza tempo per completare tutti i disegni, si inserivano semplicemente delle immagini. Poiché dovevano produrre fumetti settimanalmente, quegli artisti erano tenuti da contratto a consegnare tre pagine alla settimana: se erano malati o non riuscivano a finire, l’editore si limitava ad aggiungere immagini. Oggi il fumetto non è più un medium popolare: è stato gentrificato. I fumetti più diffusi oggi sono i manga. Dunque la nozione di “popolare” è molto complessa e deve essere contestualizzata ogni volta.
Secondo lei, quali possibilità espressive e conoscitive si aprono in un fototesto o in un’opera transmediale che a un romanzo – vincolato alla sua unità formale – rimangono parzialmente precluse? Quali possibilità emergono, più precisamente, dallo scarto – o dalla tensione – tra codici artistici differenti?
Vorrei iniziare dicendo qualcosa sul fototesto come opera transmediale. La domanda sembra suggerire che un fototesto allarghi o ampli ciò che un romanzo o un testo è in grado di fare. Comincerei discutendo la resistenza opposta al fototesto. Storicamente c’è stata una forte resistenza contro questo genere – lo si nota studiando la storia del romanzo. I fototesti erano pochissimi, confinati nei cosiddetti generi marginali: difficile immaginare, ad esempio, La coscienza di Zeno accompagnato da fotografie. Questa resistenza è legata al fatto che, per molto tempo, si è pensato che aggiungere un’immagine limitasse le possibilità di un testo. Un testo può essere molto evocativo e lasciare spazio all’interpretazione. Così, quando vi si aggiunge una rappresentazione visiva, ad esempio, di un personaggio, molti lettori pensano che l’idea che si erano creati nella mente leggendo sia molto più ricca di ciò che vedono nell’immagine, e quindi non apprezzano la presenza della fotografia. Se questa convinzione è stata a lungo egemonica, oggi la percezione sta cambiando, anche se ciò non significa che tutte le combinazioni fototestuali vengano apprezzate allo stesso modo.
In questo contesto c’è anche un’idea di fedeltà che viene considerata negativamente. Produrre un fototesto in cui le immagini sono una mera illustrazione del testo è in genere ritenuto inutile. Allo stesso tempo, però, il fatto di non poter semplicemente riprodurre il testo fedelmente può diventare uno straordinario vincolo creativo. Normalmente la regola generale è che ciò che si mostra non dovrebbe essere completamente separato da ciò che si racconta, ma diverso quel tanto che basta a renderlo creativo. Eppure ci sono artisti che davvero mostrano ciò che raccontano. La corrispondenza perfetta tra l’oggetto descritto nel testo e l’immagine può sembrare banale, ma può anche essere una sfida stimolante. Invece di mostrare qualcosa di totalmente diverso, l’artista cerca di raffigurare esattamente ciò che viene descritto: lo sforzo stesso di essere fedele può produrre risultati strani, eppure sorprendentemente interessanti. W. G. Sebald gioca proprio con questo: in fin dei conti, tutto ciò che mostra è anche descritto. Ma riesce a ottenere qualcosa che è, allo stesso tempo, molto fedele e leggermente diverso. A mio parere, è un buon modo per giocare con quella regola egemonica secondo cui bisogna fare qualcosa di radicalmente diverso.
Il caso di Nadja (1928) di André Breton è altrettanto affascinante. Breton dichiara esplicitamente, all’inizio del libro, di non star scrivendo un romanzo – il che è totalmente falso. Poi afferma che si tratta di un documento, che non contiene descrizioni perché le descrizioni annoiano e i lettori tendono a saltarle; dunque sostiene che tutte le immagini sostituiscono descrizioni. Queste immagini non sono mai artistiche: usa cartoline e fotografie molto banali, ma è estremamente importante notare come ognuna sia accompagnata da una didascalia. A rigor di logica le didascalie non dovrebbero esserci, il che produce già una contraddizione. Inoltre, nelle pagine di Nadja, l’autore non si limita a inserire le immagini, ma le spiega lui stesso. Così, invece di avere fotografie che prendono il posto di descrizioni assenti, le immagini sembrano sostituire il testo, ma sono comunque descritte in un altro modo. La discussione che nasce da questo esempio è simile a quella sulla nozione di originalità.
Per riassumere: c’è una resistenza molto antica all’illustrazione in generale, salvo nei confronti delle cosiddette illustrazioni “non illustrative”. Esiste un numero vastissimo di romanzi che di solito vengono illustrati con fotografie. Ma tutti questi romanzi illustrati, o persino le versioni illustrate di romanzi, erano quasi sempre edizioni limitate. Questo significa che, solo quando un libro aveva molto successo, altri editori chiedevano l’autorizzazione per realizzare una sorta di ristampa di lusso dell’edizione normale, aggiungendo immagini.
L’intera tradizione fototestuale è del tutto assente dalla storia letteraria, anche se alcuni di questi fototesti sono estremamente interessanti. Si tratta di una sorta di contenuto nascosto, che ha a che fare con il modo in cui l’industria editoriale – e anche il sistema accademico che collabora con essa – promuove un certo tipo di presentazione formale, escludendo così illustrazioni e fototesti. Questo processo ha cominciato a cambiare solo di recente, ma è davvero sorprendente che così poco della tradizione fototestuale sia rimasto nella storia letteraria. Il caso è paragonabile a quello del cinefotoromanzo nella storia del cinema: c’è ancora molto da riscoprire. E da qui possiamo tornare alla domanda su quale sia la versione originale: quella illustrata o quella non illustrata?
Nel romanzo Faire sécession (2017) sembra giocare con diversi generi letterari (romanzo, reportage, lettera). La componente visuale, d’altro canto, è composta soltanto da illustrazioni realizzate appositamente per il libro, mentre altri possibili elementi visuali – come fotografie o figure – vengono solo evocati. Perché ha scelto di escluderli?
La ragione principale è che il testo è già di per sé un miscuglio di cose molto diverse. Se avessi provato a fare lo stesso anche sul piano visuale, il risultato sarebbe stato piuttosto caotico. Tuttavia, penso di essere stato abbastanza chiaro nell’indicare altre fonti visuali («Faire sécession, un roman historique entre procédé et bricolage», 2019). Per esempio, esiste una collezione di circa cento figurine uscita nei pacchetti di gomma da masticare dedicate alla Guerra Civile americana, la serie Civil War News risalente agli anni Sessanta. Quando ero bambino – avrò avuto cinque o sei anni – compravo le gomme da masticare non per la gomma in sé, ma per le immagini. All’epoca si trovava questo tipo di figurine su qualsiasi argomento immaginabile: dalle star del calcio a quelle del cinema, non solo nelle gomme ma nei prodotti più svariati. C’erano anche serie a scopo didattico, come questa, che raccontava la storia della Guerra Civile americana (1861-1865). Fu pubblicata negli Stati Uniti in occasione del centenario, e il materiale rimasto invenduto venne riversato sul mercato europeo. All’epoca non conoscevo una sola parola di inglese, ma riuscii comunque a mettere insieme la collezione completa.
Un’altra serie che vale la pena ricordare è Mars Attacks, la storia di un’invasione marziana. Il film Mars Attacks! (1996) è una sorta di variazione del film La guerra dei mondi (1953), ma pochi sanno che in origine Mars Attacks era una serie di figurine nei pacchetti di chewing-gum, trasformata solo in seguito in un film. In effetti, la pellicola è la trasposizione della collezione Mars Attacks (1962). Anche qui la nozione di “originale” diventa problematica. Inoltre, i testi di Mars Attacks in realtà plagiano la storia narrata e diretta da Orson Welles in La guerra dei mondi (1938), un radiodramma in cui immaginava un’invasione marziana alla fine degli anni Trenta, adattando l’omonimo romanzo di H. G. Wells (1898) – lo stesso che sarebbe poi stato ripreso dal cinema.
Conosco abbastanza bene l’iconografia di quel periodo: è vastissima, molto varia e assolutamente affascinante. Ma se avessi inserito tutto quel materiale, insieme alle fotografie, nel mio libro, credo che non avrebbe funzionato. È una scelta stilistica. Lo stesso vale per la tipografia, che è molto omogenea perché ho deciso di non giocare con caratteri diversi a seconda dei generi. Alla fine, ho preferito avere immagini che non fossero illustrative in senso immediato.
Quali ruoli giocano la spazialità e la temporalità nella sua poesia? Cosa segna il passaggio da un luogo generico a un endroit specifico e significativo? Penso alla raccolta Mon jardin des plantes. Poèmes et photographies (2024), che trasmette un particolare senso del tempo. Si può dire che i diversi luoghi nella sua poesia funzionano, in un certo senso, come cronotopi? Come si intrecciano spazio e tempo in questi luoghi, e quale esperienza temporale creano per il lettore?
La nozione di “cronotopo” è stata sviluppata originariamente da Bachtin in relazione al romanzo, ed è raramente applicata alla poesia: usarla in questo contesto implica un certo slittamento concettuale. Inoltre, se si legge attentamente Bachtin, il concetto stesso risulta piuttosto complesso. Un termine più usato è invece quello che Foucault chiama “eterotopia”, vale a dire un endroit, un luogo specifico in cui due logiche diverse – spaziale e temporale – entrano in conflitto o si incontrano. Quindi la mia risposta sarebbe più o meno questa: in poesia, questi luoghi “diventano” endroits.
Il mio interesse – e il mio piacere – nel camminare si concentra su luoghi molto specifici che, per me, possiedono quasi inevitabilmente una sorta di densità temporale. Sono attratto dal tentativo di giocare con strati temporali in luoghi specifici che, a prima vista, possono sembrare molto piatti e privi di storia – spesso luoghi molto banali. E poi, all’improvviso, entra in scena il tempo, ed è proprio questo che voglio esplorare.
Faccio un esempio un po’ sciocco. Parma ospita il meraviglioso Museo Bodoniano, una collezione che include una sezione interessante dedicata alla tipografia. L’opera di Bodoni, come tipografo, è tuttora molto considerata, soprattutto in poesia. E proprio vicino al museo, nella piazza davanti al palazzo, c’è uno spazio aperto che è il risultato dei bombardamenti durante la guerra. Attorno ci sono diversi caffè, e in uno di questi, dove mi sono fermato a mangiare un panino, le pareti erano ricoperte di manifesti di film neorealisti ambientati nella zona di Parma. Amo questo tipo di situazione: in un endroit specifico, all’improvviso si viaggia nel tempo, si incontra il passato.
Ho dimenticato gran parte del mio latino, ma sento ancora un legame molto forte con quella lingua. Il latino ha una struttura che offre qualcosa che non abbiamo più né in francese – né in italiano né in inglese: le declinazioni. Le diverse forme di una parola – al caso accusativo o genitivo, per esempio – sono state sostituite da preposizioni, il che rende la lingua più pesante, più lenta, più esplicita, meno concisa. In latino, invece, si possono dire molte cose con pochissime parole – Dura lex, sed lex. Descrivere qualcosa in poche brevi parole è qualcosa che cerco anch’io di fare, perché in un verso il numero delle parole è limitato – e la loro posizione è in parte vincolata – altrimenti si perde tensione. Se, appena inizi a leggere una parola, sai già come finirà il verso o la frase, allora la poesia non funziona al meglio: dovresti essere sorpreso da ogni nuova parola – come in inglese, che può contare su molte parole monosillabiche. Non è qualcosa che si possa calcolare del tutto, ma idealmente ogni lettera conta. Eppure, per il lettore, non deve apparire come il frutto di uno sforzo eccessivo o artificiale. Il latino mi aiuta a compensare questo problema specifico che riscontro nel francese – e credo proprio anche dell’italiano. In francese si dice ça sent la sueur (“si sente odore di sudore”), e non è una cosa positiva. La lettura dovrebbe risultare più o meno fluida, ma non così immediata da non suscitare il desiderio di rileggere la poesia: perché ogni volta che si torna sul testo si dovrebbe, almeno in teoria, continuare a scoprire cose nuove. Con le parole lunghe questo semplicemente non funziona, a meno che non si giochi sul contrasto tra parole brevi e parole lunghe – il che sarebbe anche possibile, ma allora bisognerebbe davvero farne un uso creativo.
In conclusione, se dovesse consigliare a un giovane studente un’opera – poetica, visuale o ibrida – per cominciare a riflettere criticamente sull’interazione tra parola e immagine, quale sceglierebbe?
Consiglierei senz’altro il cortometraggio del 1962 La jetée di Chris Marker. Il genere del film – oltre alla fantascienza – può essere definito photo-roman. In francese il termine comune è roman-photo. Tuttavia, quando si cerca di elevare o di sperimentare con il formato, si usa il termien photo-roman invece di roman-photo, perlomeno lo si faceva in quegli anni. Dunque, la scelta del termine photo-roman per La jetée costituisce già di per sé una sorta di manifesto. Per la maggior parte del film – con poche eccezioni – non ci sono immagini in movimento: è come una sequenza di diapositive, ma non una semplice alternanza di immagini perché la durata di ciascuna varia. Ci sono sovrapposizioni, schermi neri e altri espedienti. Inoltre, la storia è davvero commovente. La giustapposizione tra testo – la voce narrante –, immagini e colonna sonora, il rapporto tra ciò che si sente e ciò che si vede: tutto questo crea una sorta di intreccio fototestuale.
Esiste anche la trasposizione in libro del film – con testo sia in francese che in inglese – intitolata La jetée: ciné-roman (1992), che è del tutto diversa da un tipico fotoromanzo (o photo-roman). In questo libro, tutte le immagini sono presentate in sequenza, così da poterle leggere una dopo l’altra, da sinistra a destra. Anche se il volume è bilingue e sembra proporre lo stesso testo in francese e inglese, a uno sguardo più attento emergono notevoli differenze tra le due versioni. Inoltre, rispetto al film, le immagini sono state selezionate e montate per rendere la lettura il più scorrevole possibile.
C’è, per esempio, una scena – già notevole dal punto di vista registico – che inizia con un primo piano della protagonista addormentata; lei poi apre molto lentamente gli occhi e guarda verso la macchina da presa. Come si può trasporre questo passaggio dal cinema alla fotografia o al romanzo? La risposta si trova nel libro, che propone una soluzione molto diversa. È sempre interessante chiedersi in anticipo cosa si farebbe, prima di scoprire una nuova versione: come l’hanno fatto altri, quali sono le convenzioni di genere, e così via. I fototesti non esistono mai in un solo formato originario – circolano.
Ancora una volta, un caso straordinario è offerto da W. G. Sebald. Il mio libro preferito dell’autore tedesco è il suo primo romanzo, Vertigini (Schwindel. Gefühle., 1990). Il primissimo capitolo racconta di Stendhal che attraversa le Alpi con l’esercito di Napoleone. Stendhal lo narra nella sua autobiografia, ma lo scrisse quando era ormai anziano e non sempre ricordava fedelmente le esperienze giovanili. Era scappato di casa perché non sopportava il padre, si era unito a Napoleone per andare in Italia e poi anche in Russia. Più tardi riscrisse le sue memorie a distanza di circa trent’anni, quando però aveva ormai dimenticato quasi tutto, perciò per compensare questa mancanza, aggiunse dei disegni. Anche se sosteneva che quei disegni mostrassero ciò che descriveva, in realtà si trattava di ricordi di altre rappresentazioni visive degli stessi eventi che aveva visto. Tutto questo processo è assolutamente affascinante: Sebald gioca con questi elementi, così come fece Breton con Nadja – entrambi capolavori assoluti. Il libro di Breton è letteratura d’avanguardia, ma scritto nello stile del Settecento francese. Quando concedeva interviste radiofoniche, Breton accettava solo se i giornalisti gli fornivano in anticipo le domande, così da poter preparare le risposte e poi recitarle in diretta (di fatto, l’esatto contrario di ciò che stiamo facendo noi ora). La versione “performata” rappresenta un’ulteriore forma che complica la concezione di originale, la questione che abbiamo discusso più volte nel corso della nostra conversazione e che qui trova una conclusione logica.
Padova, 7 maggio 2025
Intervista e traduzione a cura di Vera Marson, Leonardo Guizzetti e Giacomo Bottura
