Intervista a Gabriele Di Fronzo
Dopo un esordio d’eccezione a carattere romanzesco (Il grande animale), lei ha scritto due libri (Cosa faremo di questo amore. Terapia letteraria per cuori infranti, 2018 e La samurai, 2022) che difficilmente possono essere incasellati con altrettanta sicurezza in un genere – con Sfinge (2025) il cerchio in parte si chiude, e a distanza di nove anni si torna nel grembo della prosa narrativa, in forma ancor più “classica” di quella degli inizi. Lei si sente un autore cambiato?
Per scrivere un romanzo non è sufficiente aver tempo o estro, devozione o precisione; ci vorrebbe sempre un’armonia fra quelle parti e soprattutto un soggetto che di volta in volta consenta di manifestarle al loro meglio. Finora mi è capitato di dedicarmi a un libro quando ho avvertito che sarebbe stata possibile quella comunione. Dopo l’esordio non potevo prevedere i libri che avrei scritto né come la voce sarebbe cambiata con il passare degli anni, ma probabilmente già allora – Il grande animale uscì nel 2016 – intuivo che qualcosa sarebbe cambiato a ogni libro, senza che poi forse davvero cambiasse granché.
È celebre il motto di Joyce secondo cui ogni autore avrebbe nella sua penna un unico romanzo: lei si sente di rientrare in questo schema? Nello scrivere Sfinge, si è sentito di star creando qualcosa di fondamentalmente nuovo, o di aver mobilitato la stessa istanza creatrice che ha portato ai suoi lavori precedenti?
Mi conosco abbastanza perché poco di quello che scrivo possa risultarmi pienamente nuovo. Talvolta però subisco a mia insaputa depistaggi o accadono deviazioni impreviste o qualche prima impressione viene vanificata dalla scrittura delle pagine successive: perciò non bisognerebbe distrarsi e, anzi, bisognerebbe ascoltare quei cambi di rotta, coglierne le avvisaglie e adeguarsi a loro almeno in parte. Il padre di Maurice Sendak, in occasione di uno dei tanti giorni che il figlio a causa delle molte convalescenze trascorse a letto durante l’infanzia, lo invitò a osservare fuori dalla finestra della sua camera e a vedere se fosse comparso un angelo. Se lo avesse adocchiato, una fortuna imprevista gli sarebbe toccata in sorte. Era uno stratagemma perché il figlio, anche nei giorni pigri di malattia, non si arrendesse e stesse sempre sul chi va là. «Ma se sbatti le ciglia lo perderai», gli disse. È tutt’altro che casuale che nei fumetti di Sendak compaia spesso e volentieri una finestra. Se mentre scrivo o ragiono su un romanzo che sto iniziando a scrivere sbatto le ciglia in un momento sbagliato vi assicuro che sono fregato anch’io.
Motore della sua ispirazione sono stati, a più riprese e senza mai nasconderne l’importanza, i musei torinesi: ma cosa è venuto prima, per lo scrittore – il tassidermista o la sua creatura esposta nella teca? Il courier o il manufatto che egli deve accompagnare? Insomma: l’inventio oppure la visione-documentazione?
A mio parere il museo e il romanzo condividono molti più aspetti di quanto non si sia soliti pensare. Entrambi sono luoghi intrinsecamente relazionali, spazi in cui si pratica l’arte dell’incontro; entrambi sono luoghi di confluenza (tra l’autore e il lettore, tra la storia inventata e la realtà condivisa, tra l’uomo e il mondo, tra il presente e il futuro). Entrambi sono una parafrasi della realtà, un commento, una glossa e un’interpretazione, uno spazio di idee e di esperimenti nel quale si allude all’ignoto. Il museo ha superato la visione illuminista secondo cui avrebbe dovuto rendere noti al pubblico i progressi della civiltà. Non è più, nei casi migliori, un deposito di oggetti il cui mandato è insegnare la storia dell’arte. Il medievalista e modernista Hanns Swarzenski, direttore del museo di Francoforte e poi curatore al Museum of Fine Arts a Boston, credeva che il museo dovesse essere «una sala da concerto» e che il suo obiettivo fosse quello di «trasmettere l’esperienza artistica nel modo più perfetto». Il museo e il romanzo sono luoghi di esperienza artistica in cui la memoria degli antichi e dei contemporanei si incontrano: non sono affatto la maschera funeraria del mondo, ma un comune memoriale del tempo tra le cui pareti si riscontra continuamente la possibilità di un senso di comunanza umana altrove impossibile. Il museo, come il romanzo, è un modo di pensare al passato e al presente e al futuro, con l’immaginazione. Il museo, come il romanzo, per me e per Matteo Lesables, è il più salutare esercizio di mortalità. Un esercizio che ci permette di provare cosa significhi vivere nella biosfera terrestre, che ci permette di provare cosa significhi vivere in un sistema solare, che ci permette di provare cosa significhi vivere in un universo; un esercizio, il museo come il romanzo, che ci permette di vedere l’universo come potrebbe vederlo un dio.
Rispetto all’Occidente, Egitto e Cina funzionano magnificamente come poli di una triangolazione, tanto culturale quanto temporale, fascinosa e straniante, che permette al libro di rimanere sempre in movimento, anche quando sta fermo. Cosa l’ha condotta a scrivere della Cina, che in fondo ricopre il ruolo di deuteragonista tanto quanto la titolare sfinge?
Il viaggio ha un’attitudine ingannante, come del resto ogni esperienza passionale e intellettuale, e va assecondato senza riserve né requie nella sua natura raggirante. Anche per questo, il miglior viaggiatore è senza dubbio politeista: crede a tutto e non crede a niente. Ho trascorso i miei mesi tra Pechino e Shanghai, e poi gli anni che mi sono serviti per la stesura del romanzo, sotto questa costellazione:
- «Meno ci si cura del mondo, meno se ne è contaminati. Più ci si consacra al mondo, più si è presi nei suoi astuti inganni».
(Hong Zicheng, Aforismi sulla radice degli ortaggi)
- «Se il sogno sia un pensiero. Se sognare sia pensare a qualcosa. Supponiamo di considerare un sogno come un tipo di linguaggio, un modo di dire qualcosa, o un modo di simboleggiare qualcosa. Potrebbe esserci un simbolismo costante non necessariamente alfabetico – potrebbe essere, diciamo, come il cinese».
(Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni)
- «Suvvia, mio caro amico! Sa benissimo a cosa mi riferisco! Lei sa meglio di chiunque altro che l’occhio del ciclone non va cercato affatto in Europa, bensì in Estremo Oriente. A Shanghai, per l’esattezza».
(Kazuo Ishiguro, Quando eravamo orfani)
- «Ti preciso ancora una volta: non credere a una sola parola che non ti giunga da me. La Cina è il paese degli equivoci e delle notizie false».
(Victor Segalen, René Leys o il mistero del Palazzo Imperiale)
- «Ogni porta è una domanda».
(Enrique Vila-Matas, Kassel non invita alla logica)
Il protagonista della vicenda, Matteo Lesables, è appunto un courier: una professione atipica, dotata di un lessico preciso e di un protocollo stringente, che plasmano senza dubbio la sua forma mentis, così come l’intreccio e lo stile della prosa. Tra le righe si è anche già evocato Francesco Colloneve, protagonista de Il grande animale, che fa il tassidermista. Che ruolo svolgono i mestieri nella sua scrittura?
Ogni professione conferisce una miopia e un’ipermetropia peculiari. Quando leggo o sento parlare di autofiction, io penso che la letteratura sia invece soprattutto un modo di essere qualcun altro, e mi piacerebbe proporre il termine di l’Autre-Fiction: l’invenzione dell’altro. Secondo Max Frisch scrivere significa innanzitutto cambiarsi l’abito. Cambiare città; cambiare colore degli occhi; cambiare lavoro. Mi hanno sempre affascinato i mestieri singolari svolti dai personaggi dei romanzi di Daniele Del Giudice o di alcuni film di François Truffaut (come il protagonista dell’Uomo che amava le donne, un ingegnere esperto di meccanica dei fluidi che lavora in un meraviglioso istituto di ricerca) poiché comportano miopie e ipermetropie eccezionalmente speciali, diverse da quelle di chiunque altro. Per alcuni mestieri in particolare occorre essere tagliati, e per tagliati si immagini proprio un taglio: da quella ferita deriva infine, per ciascun personaggio, quella che Maupassant chiamava la «visione personale del mondo».
Matteo è un uomo che cerca di proteggere qualcosa che, fragilissimo e al contempo coriaceo, pure gli sopravvivrà di molto, e dal quale è in fondo lui stesso ad esser protetto – così posta, non sarebbe difficile immaginarla come una mise en abîme della condizione dello scrittore… Dietro quest’uomo e questo incarico si cela qualcosa di più?
Proseguendo a parlare del personaggio, del compito che deve portare a termine, devo anche dire che l’invenzione di un personaggio è certamente importante, e quindi del suo mestiere e del tessuto dei suoi abiti, del rapporto con i famigliari e delle proprietà immobiliari, ma è altrettanto importante l’individuazione della legge nascosta che ne governa il destino. Cosa si nasconde in Matteo Lesables – cosa si nasconde in «un uomo impossibile» come lui, così lo ha definito una delle più affidabili e acute lettrici che conosca – e cosa si nasconde nel suo incarico sembrerebbe in effetti non discostarsi troppo da quel che si cela in chi scrive – tra l’altro un uomo impossibile pure lui: vegliare, cioè, una fiamma fioca aspettando che quella fiamma fioca piano piano si spenga, senza troppe illusioni sul fatto che invece potrà continuare a bruciare per sempre.
Qi, Sara: il libro si apre e chiude con loro, ne è puntellato. Che ruolo svolge l’amore, nella vicenda? E più diffusamente nella sua scrittura?
Ho vissuto l’Antico Egitto e la Cina non da primo testimone ma da “testimone secondario”. Cesare Cases, germanista e critico letterario, definiva testimone secondario chi non sa sempre tutto, chi non si trova dappertutto al momento giusto; il testimone secondario rappresenta per lui un’altra categoria, la categoria dei curiosi, di coloro che si trovano sul posto solo perché passavano da lì per caso o perché qualcuno li aveva indotti a recarsi da quelle parti o perché li spingeva un impulso a loro stessi indecifrabile. Mio padre è stato custode del Museo Egizio di Torino dalla fine degli anni Settanta al 2011, ed io ho varcato le porte del museo all’età di tre anni: da allora – e si può dire che Sfinge iniziai a scriverlo quella mattina del 1987 – ho passeggiato per quelle sale centinaia di volte. Non sono un egittologo, però. Ho una conoscenza più che altro affettiva dell’Antico Egizio. In Cina, tra Pechino e Shanghai, ho vissuto qualche mese ospite di residenze di scrittura: non sono affatto un sinologo. Dell’Egizio e di Shanghai sono, dunque, un testimone perlomeno secondario e come tale ne scrivo. Stessa cosa direi per l’amore.
Più volte nel romanzo fanno capolino visioni ed eventi onirici, che rasentano il soprannaturale (penso a Kong Yalei e agli alieni), suffragati dall’esotismo della Cina “di strada” e al contempo subito esorcizzati e ricondotti ad una quasi-normalità ironica, persino pudica. Anni fa si parlò di new weird, di ritorno del perturbante… Come vive lei questi dati? C’è un’effettiva tentazione al soprannaturale nella sua prosa?
Ha due fonti gemelle, la mia scrittura: la conoscenza (diretta o indiretta che sia) e l’immaginazione. Nel suo ultimo libro, La verità e la biro (2023), Tiziano Scarpa sostiene che esista, per chi scrive, «un’immaginazione grande, generica, ambientale, e un’immaginazione piccola, dettagliata, minuziosa, perché bisogna inventare anche i particolari, per dare concretezza alle circostanze in cui si svolge una storia». Per me, oltre all’immaginazione grande, c’è anche un’immaginazione gigante, un’immaginazione ciclopica, titanica, nella quale una megalopoli cinese, una sfinge millenaria che vola su un aereo di linea sopra tutta l’Europa e la Russia, l’esistenza di un fiore estinto e ora riportato in vita, esistono alla stessa altitudine.
Lei ha un’idea di letteratura, più o meno forte, che la guidi nelle sue letture, nella sua scrittura, nella selezione dei libri e degli autori a cui ispirarsi e a cui aspirare?
Non ho un codice di buona condotta o un protocollo comportamentale, ma ho una scia luminosa di scrittori e di storie, e la convinzione espressa da Milan Kundera che il romanziere esplori l’esistenza di un individuo, e «l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace».
Intervista a cura di Gian Marco Evangelisti
